LUCIANO DAMIANI, UNA VITA PER IL TEATRO

 

Luciano Damiani nasce nel 1923 a Bologna, in via Sebastiano Serlio scenografo, forse una predestinazione. Allievo di Morandi, progetta le prime scenografie per il Cut Centro Universitario Teatrale di Bologna mentre si dedica contemporaneamente a creare immagini per pubblicità cinematografiche. Presto, Sandro Bolchi e il gruppo teatrale della Soffitta, lo chiamano per disegnare e realizzare le scene dei loro spettacoli. Nel 1952 inizia il sodalizio artistico con Giorgio Strehler, certamente il più fecondo del teatro italiano del ’900. Nascono i grandi spettacoli che hanno rinnovato la nostra scena: L’anima buona di Sezuan, Vita di Galileo ed altri testi di Brecht che prima d’allora non era stato rappresentato in Italia, El Nost Milan di Bertolazzi, , Il giardino dei ciliegi di Cechov, La Tempesta di Shakespeare, e i goldoniani Il campiello e Le baruffe chiozzotte, per citarne soltanto alcuni. Altri registi vogliono Damiani per disegnare le scene e i costumi dei loro spettacoli: Fersen, Squarzina, Puecher, Missiroli, Ronconi, Planchon, Enriquez, Jean Vilar, Vittorio Gassman. Intanto si dedica anche all’opera, e i suoi spettacoli vengono accolti nei più importanti teatri lirici: La Fenice di Venezia, La Scala di Milano, l’Arena di Verona, e poi Amburgo, Vienna, Salisburgo, Buenos Aires. Memorabile resterà la sua visione scenica del Ratto del serraglio di Mozart con regia di Strehler, tuttora rappresentato.

“Non si deve decorare lo spazio, ma strutturarlo” dichiara Damiani, e lavorando con questo criterio afferma un rinnovato ruolo protagonista alla scenografia. Spazi rarefatti, essenziali, in cui perdersi come in un richiamo ipnotico, eppure terribilmente poetici. La genialità di Damiani è sostenuta da un metodo che supera il puro istinto del creatore. Osservatore implacabile, degli spazi, non coglie prospettive e proporzioni in termini intuitivi e basta, ma si interroga sulle percezioni dell’occhio e sulle impressioni ricevute dal cervello, così che la sua storia d’artista si fonda anche su una riflessione e una teorizzazione dei suoi studi che si può definire di marchio scientifico. Tuttavia, queste ricerche, non riescono più a trovare nella sola scenografia l’ambito ideale di sperimentazione. Negli anni ’80 acquista a Roma delle antiche grotte secentesche. E a 58 anni, compie un’impresa solitaria e immensa. Finanziandolo completamente e costruendolo con la sola forza delle sue braccia, Damiani costruisce il Teatro di Documenti, sintesi compiuta della sua idea di teatro. Uno spazio luminoso, un labirinto di sale, scale, specchi, un teatro-tempio che abbatte quella barriera attore-spettatore che Damiani, già nelle sue scenografie, aveva messo in discussione. Scenografo, costumista, architetto, dunque ma anche regista. Negli ultimi allestimenti presentati al Teatro di Documenti intraprende una nuova ricerca sulla drammaturgia e sull’attore il quale, nascoste le sue fattezze sotto uno strato di biacca e un naso rosso, diviene neutro ed esclusivo strumento espressivo. Ad ogni personaggio, inoltre, Damiani affianca un suo doppio, e le battute, frammentate tra l’uno e l’altro, o ripetute, amplificano la musicalità della parola e ne rinnovano il senso. Mentre sul dire stabilisce una gestualità precisa e dei movimenti di scena che incalzano come serrate coreografie. Grandi classici, Baccanti, La Mandragola, La Moscheta, vengono rappresentati secondo la linea di questa ricerca. Innovatore e sovvertitore della scena, Damiani resta un punto fermo e luminoso nel sistema del teatro italiano.